Lo spirito della nuova generazione di fronte a Papini
Pubblicato in: Bilychnis, anno XII, vol. 21, fasc. 5, pp. 281-286.
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Data: maggio 1923
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Un nuovo libro di Papini (questa volta in collaborazione con il cattolico ferocissimo Domenico Giuliotti) appare oggi nelle vetrine della libreria italiana: Il dizionario dell'Orno salvatico. Poesia? Romanzo? Filosofia?
Non scherziamo. Papini è ormai su un binario fisso: e sarebbe assurdo ed anzi puerile, attendere da lui un libro di vera sofferenza interiore, l'opera che i suoi ammiratori se ancora ce ne sono -aspettano o invocano.
E poichè Il Dizionario dell'Orno salvatico (Vallecchi, Firenze) pur con tutte le pagine belle e papiniane, non ci dà un nuovo Papini e poichè, diciamolo pure, un nuovo Papini non verrà forse mai più, cerchiamo con volontà e intelligenza, prima di passare ad altri nomi, di stabilire, sia pure a modo nostro e senza pretese critiche, che cosa egli abbia dato alla nostra generazione e come essa lo guardi oramai e consideri.
La parte che Papini ha rappresentato negli anni oscuri dell'ultima fase del dominio dannunziano, fu tutt'altro che povera e priva di irradiazione. Si può anzi dire che egli sia stato il solo ingegno vivido dell'epoca: così ansioso apparve di verità; così vario e mutevole nelle sue ricerche ed esperienze. Infatti, mentre i più credevano ad occhi chiusi nei vecchi dogmi letterari spirituali e morali, egli li combattè; e non superficialmente e debolmente, ma con tutte le forze dell'ingegno e dell'animo; donchisciottescamente avido di scoperte ognora più nuove e e più limpide. I primi dieci anni della sua attività documentano in modo mirabile
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la freschezza del suo ingegno e la gagliardia e l'impeto della sua natura. Cercatore per l'istinto, egli passa, scontento e febbrile, da un'esperienza all'altra: e sebbene ogni superamento segni in fondo per lui più una sconfitta che una vittoria, il suo animo non cede, la sua veemenza non decresce; si che il lettore ha la sensazione di un continuo rinnovamento di forze e di cultura, il quale si alimenti nella stessa tragedia dell'uomo e lo sproni verso il capolavoro. Un documento infatti di questa ansia egli dovrà poi darlo nell'
Quanto i giovani, che oggi contano trenta o trentacinque anni, abbiano amato Papini (e non solo gli italiani) non è ormai chi non sappia; chè tutti vedemmo in lui rappresentato e con vera maschilità il nostro dramma ancora in formazione o appena nascente; e questa rappresentazione aveva momenti di tale novità, punti e passaggi di tale freschezza che lo stupore fu quasi superiore all'ammirazione medesima.
Storicamente parlando, egli ripeteva, sia pure rinnovandole, attitudini non nuove nel corso del pensiero umano; chè tutte le epoche, nella loro parabola di stanchezza, trovarono o quasi un Papini; ma chi pensi al momento in cui egli sorse, acquitrinoso e rettorico, non può non riconoscere al Papini un'audacia di gesti e di espressioni assolutamente insolite.
Noi si nasceva allora alle lettere: e, come automi, s'accettava ciò che si trovava, senza vagliare io non dico le nostre letture, chè nei giovani di rado il senso critico è innato; ma neppure gli uomini, come uomini: per vedere se la produzione dei più famosi fosse sincera o faticata: e chi erano infine, nella vita quotidiana, costoro. In quella stasi di tutte le nostre energie estetiche e morali, incontrammo adunque Papini; e la sensazione fu come d'una grossa ventata repentina; che rischiara e insieme quasi stordisce. Amano d'altronde i giovani chi dimostra, e magari rettoricamente, audacia e slancio; e anche i più radicati, come studio e sensibilità, all'arte allora di moda — D'Annunzio ed epigoni — non poterono sottrarsi a quell'improvviso fiato giovanilmente baldanzoso; e, anche se restii, presto o tardi lo avvertirono e se ne giovarono.
La fortuna di Papini non si irradiò peraltro così come oggi appare: immediata; ma con un lento processo di penetrazione, al quale non furono estranee anche certe dicerie e leggende. E se la realtà era magari modesta, o, almeno, non straordinaria, la leggenda la arricchì, la colorì, le dette aspetti e fisionomie talmente misteriosi che la diffusione di quel nome e di quell'opera e la polarizzazione
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di quei gesti ne fu avvantaggiata di molto. Una leggenda che mutava a seconda dei luoghi; ma attraverso la quale Papini era visto o come un gobbo arrabbiato o come un satana redivivo; che vivesse bensì a Firenze, ma non si sapeva come; nemico a tutti e anzi lieto di queste inimicizie e odii scatenatisi intorno a lui.
La realtà era un'altra, come vedemmo e sapemmo poi; chè quel giovane, mentre menava colpi a destra e a sinistra, soffriva febbrilmente e duramente le sue vigilie di studio nelle pubbliche biblioteche: faticando e cercandosi; creandosi e ricreandosi di continuo.
Quella sua natura d'altronde più di dialettico che di artista, più di polemico che di costruttore non trovava mai, per quanto egli cercasse, un terreno piano sul quale abbandonarsi. E le sue possibilità emotive non sono straordinarie: più cervello che cuore. Quando, infatti, egli tenta di isolare la propria sensazione dal mondo libresco in cui s'è immerso fino alla nausea, costruisce bensì, ma sempre con intenzioni critiche e sofistiche; e di rado una commozione profonda aiuta i capricciosi voli della sua potente fantasia. Molti anni dovranno passare — e quanto faticati! — prima che egli trovi qualche accento veramente interno e sofferto; e, d'altra parte, come in tutti i cerebrali, la commozione non gli nascerà mai, o di rado, davanti allo spettacolo della miseria altrui, ma sempre di fronte alla propria: sia un ricordo dell'infanzia (Martin La Palma) sia la sua biografia medesima di uomo e di scrittore (Uomo finito).
Eppure, anche le sue opere minori — di creazione o di critica — per quanto il rileggerle oggi ci dia quasi un senso di fastidio, anche le opere minori non è possibile trascurarle: chi pensi all'epoca in cui nacquero e all'enorme consenso che suscitarono. Era, come s'è visto, l'epoca del dannunzianesimo: nella quale trionfavano nella poesia temi e motivi o frivoli o rettorici, nella narrativa notazioni e invenzioni strettamente pigramente aderenti alla vita: senza un fiato di poesia e, che è peggio, con forme e modi giornalistici, prosa corrente. Papini non era ancora il prosatore eccellente dell'Uomo finito e soprattutto delle Cento pagine di poesia; ma, aiutato dalla lingua nativa, ha già un'andatura stilistica discretamente disciplinata: e se ancora non soffre proprio lo scrupolo della parola, il suo innato spirito critico gli vieta almeno gli abbandoni e le cadute così soliti nei tre quarti degli scrittori italiani, anche i dannunziani. D'altra parte l'odio istintivo verso le invenzioni consuete lo porta a ricerche e motivi di natura più interna: e sebbene, per sfuggire certi modelli, egli ne segua poi altri (accade sempre così a coloro che tentano il nuovo) la sua fantasia è, così ricca e duttile che anche nei componimenti più ricalcati su Poe, c'è sempre qualche segno o momento proprio suo, inconfondibile. Certo questi libri( nè il Tragico quotidiano nè Il pilota cieco, nè Parole e sangue, nè Buffonate) non ci rappresentano il migliore Papini; ma errerebbe per certo chi li trascurasse del tutto. Direi anzi che bisogna muovere ad ogni costo
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da questi sforzi e tentativi per capire il Papini che verrà: e perfino per spiegare la sua conversione repentina di oggi. Ingegno più atto ad espellere che ad assimilare, la sua fatica, soprattutto nei primi anni, si svolge bensì per comprendere, ma per comprendere dinamicamente: cioè per sorpassare, per andare oltre. Accetta a un primo momento; subisce anche; ma la sua accettazione non è mai totale, definitiva. Anche quando sembra pervenuto in un'atmosfera che gli si confaccia (Si veda l'esperienza pragmatista) la sua inquietitudine, e sia pure latente, permane: e, a un momento, nuovi dubbi, nuove incrinature, lo disturbano: le quali, se anche non lo conducono alla negazione, risvegliano il suo istinto critico ed àrmano.
Questi corsi e ricorsi, queste accettazioni e ribellioni, queste tragedie cerebrali e interne non sono d'altronde solo di Papini, ma di tutta quella generazione che, nata a cavallo di un'epoca stanca e atea, materialista e scettica, sente l'approssimarsi di una grande crisi: la quale sarà appunto la guerra mondiale con la conseguente decadenza di tutti gli alti principi morali. Per questo, Papini non resta un fenomeno italiano e mediterraneo; ma la sua tragedia cerebrale s'innesta a quella europea: e, sia pure con un'opera discutibile e forse non grande, egli ne diventa uno degli interpreti più sinceri. Altri potè infatti superarlo per forza creativa e per sentimento; o perchè più atto a costruzioni conchiuse; ma è pur vero che nessuno degli italiani dell'epoca antibellica seppe come lui affacciarsi su tanti problemi ed attuali; e, anche se frettolosamente e giornalisticamente, rendersene conto.
Cosicchè per molti anni egli fu in Italia un dominatore; e se, come tutti i dominatori, assai volte perdette il senso dell'equilibrio, cadendo — egli così nemico del luogo comune e della rettorica — nella rettorica medesima o nel giornalismo, non è men vero che egli ci lascia la sua epopea spirituale nell'Uomo finito: opera indubbiamente difettosa (non un capolavoro) ma potente e febbrile: una delle più vive, se non addirittura la più viva, che l'epoca post-dannunziana abbia visto nascere.
Questo, il Papini che la gioventù italiana ha amato e conosciuto nell'epoca prebellica. Ma quanti di noi che lo hanno amato, che lo hanno seguìto, che hanno creduto in lui, gli sono ancora fedeli? Storicamente parlando, egli è ancora qualcuno, ma nella vita spirituale di oggi non conta più: sorpassato o dimenticato. Con una caduta quasi altrettanto repentina quanto la conquista, Papini si trova oggi, se anche tuttora con molti lettori, in un'atmosfera che non solo egli non domina più, ma che neppure lo avverte. E non è questo un fenomeno strano o una di quelle stanchezze e nausee che toccano quasi sempre agli scrittori molto popolari; chè, ripeto, la tiratura dei suoi libri è sempre alta ed anzi in continua ascesa; sì piuttosto un fatto umano e morale assai semplice e, direi, conseguente. Infatti i giovani che oggi contano nella vita italiana (e che più conteranno domani) sono quasi tutti reduci di guerra; e la guerra, oltre che dar loro un grande equilibrio, li ha resi avidi di ben altro che di bei paradossi e di agili stroncature.
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Quello che di buono aveva gustato e amato in Papini era d'altronde di ieri: di un'epoca frolla e denutrita moralmente, letterariamente e politicamente; e l'oggi appare invece a questi giovani tanto distante e diverso dallo ieri che certe esperienze dell'anteguerra sembrano loro persino anacronistiche, quando non addirittura rettorica pura. Lassù alla guerra i libri di Papini continuarono ad avere molti lettori: ma, finita la guerra, questi lettori aspettavano dallo scrittore tanto amato io non so che cosa, ma certo un libro degno dell'immane tragedia che il mondo ed essi stessi avevano sofferta: libro che Papini non dette e forse non darà mai. Fosse o no giusta questa aspettazione, e logica, non direi: chè chi ben guardi la conclusione dello slancio papiniano è appunto nell'Uomo finito: là dove egli si costringe ad una confessione stretta e disciplinata delle proprie avventure interiori: e le prove ed esperienze succedute a quel libro non altro erano in fondo che riprese, ritorni, ritocchi di motivi autobiografici: stilizzati questa volta e raggrumati in poemi. Il fatto è che' Papini non fu ritrovato; e, a parte le sue possibilità forse limitate, certo più cerebrali che affettive, a questo spostamento improvviso della sua posizione nella vita intellettuale italiana, contribuì la sua assenza quasi assoluta dal mondo della guerra: e non tanto fisica quanto spirituale. Infatti ricordiamo tutti che cosa egli abbia scritto in quell'epoca: o stroncature giornalistiche o poemetti in prosa: gli uni e le altre espressi come da una voce indifferente e lontana: quasichè egli non vedesse e vivesse con gli altri; ma chiuso in un mondo ovattato, assente del tutto dalla tragedia che noi lassù soffrivamo. Mancato adunque il miracolo o il capolavoro, i giovani ammiratori di ieri avvertirono all'improvviso e in lui e nella sua opera quello che in realtà i critici più sottili vi avevano già scorto prima della guerra: un'assenza quasi assoluta di sensibilità, uno sforzo tutto cerebrale di epater il lettore ad ogni costo, una facilità abbondevole, infine uno scrittore più nato a dissertare gustosamente su questo o quel tema che a creare. Furono perfino dimenticati i momenti più belli e sofferti della sua opera: nella quale c'era, c'è e sempre vi si vedrà, uno sforzo nobilissimo di comprensione e di eliminazione; e lo si lasciò indietro con fastidio e antipatia. Che il consenso gli dovesse diminuire, forse egli stesso lo presagiva; ma non così improvviso, e soprattutto non da parte di quelli, che fino a ieri gli erano stati fedeli: i giovani.
Lontano ormai dai nuovi, il distacco, anzi che diminuire, si accentuò quando egli pubblicò la Storia di Cristo. Perchè non solo veniva a mancare dopo due anni di silenzio quel capolavoro che si aspettava, ma, che è peggio, egli si riaffacciava mutato: con una rassegnazione improvvisa di vecchio o di vinto. Gli ideali della generazione uscita dalla guerra potevano anche tendere verso una vita più nuova, più pura, più morale; vibrare già in essi un bisogno di appoggi più sostanziosi; pungere, e urgente, una inspiegabile e mai sofferta per l'addietro inquietudine; ma, tra questi confusi sentimenti e l'affermazione ortodossa di Papini, c'è troppo
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spazio non colmato. Intuì egli che, dopo la guerra, la generazione reduce avrebbe cercato una fede; ma questa intuizione egli ebbe troppa fretta di tradurla in atto, di darle una forma e un nome. Da un lato dunque attesa, disturbo e confusione; ma dall'altro troppo rapida e decisa affermazione. Insomma la Storia di Cristo e la conseguente conversione non dettero al reduce la sensazione del dramma: sì piuttosto di un frettoloso accomodamento: che non persuase. Infatti, pur col suo successo, la Storia di Cristo non chiarì nè medicò il disagio spirituale nel quale la generazione tribolava: chè l'aspettativa era ancora caotica, in formazione: e ben pochi si sentivano già maturi per un ritorno deciso e totale (non drammatico) alla fede dell'infanzia. Per questo, il successo fu fittizio: in quanto, anzi che la via sognata, il libro dovette imboccarne una più ortodossa e più facile: e la più gran parte dei lettori trovarli nei seminari, nei conventi, nelle canoniche. Credevano i giovani che dopo la guerra Papini esprimesse il loro dramma: magari aiutando la loro inquietitudine a placarsi; e invece egli veniva fuori con un vestito bello e fatto, con i capelli bianchi di cenere, con nelle mani un rosario: o troppo poco o troppo addirittura..
Ma in realtà essi avevano creduto esageratamente in lui e nelle sue forze. Papini non era un taumaturgo: era un uomo. E il suo ingegno non poteva trovare accenti nuovi dopo la guerra perchè egli era stato troppo chiuso e lontano dal dramma di tutti: e perchè infine il suo dramma, pienamente egoistico, aveva già compiuto la sua parabola e conchiusosi..
Apparve allora non più come un genio, dal quale si può attendere chi sa che cosa: nè una figura mitica di proporzioni insolite; ma un uomo di grande ingegno il quale s'era sbrigliato nelle più belle avventure cerebrali; e a un momento aveva trovato, già stanco e affralito, il suo riposo in Dio. Non era più neppure un fratello maggiore; di quelli che con la persuasione e l'amore possono aiutare i minori a disbrigliarsi da un dubbio o da una pena. Ma, ripeto, egli non poteva dare più di quello che aveva dato (ed è pur molto); e se la Storia di Cristo non è un capolavoro, se il Dizionario dell'Orno selvatico non ci dà un altro e più nuovo Papini, se la sua statura infine non soverchia quella dei coetanei, non per questo egli deve essere ad essi meno caro e vicino. Consapevole o no, egli fu con essi nella loro prima giovinezza, insegnando loro a disprezzare tante cose false e a riconoscere la pagliuzza d'oro nel pattume: guida audace e proterva, disinvolta e coraggiosa in un'epoca di rettorica e di enfasi..
Nella storia della loro formazione spirituale, trovi egli o no un giorno chi lo superi, egli ha agito come un acido corrodente: e se i giovani d'oggi e d'ieri sono liberi di tante scorie lo devono anche a lui, e forse a lui,soprattutto. E se oggi egli è chiuso nel cerchio di una fede e ha perduto ogni ragione di dramma, essi che, pur volendo credere, ancora non credono, non come a un vinto debbono se mai guardarlo, ma come a un liberato: legati come sono alla catena della loro quotidiana tragedia e senza ahimè avere ancora scritto il loro Uomo finito!
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